Presentazione di Rosanna De Luca

 “La grotta delle rondinelle”! Il titolo, certamente metaforico,  mi riporta alla mente la voce di mia madre quando, all’arrivo della primavera, mi annunciava che “erano ritornate le rondinelle”: erano ritornate al loro nido…come le rondinelle di cui andremo a parlare fra poco. Anche questo contribuisce a farmi sentire un certo trasporto verso questo libro la cui lettura richiede certamente una buona dose di impegno.

Un libro di cui non è affatto facile parlare e dirò poi perché.

L’ho letto più volte prima di scrivere queste poche considerazioni. Ho avuto bisogno di leggerlo più volte perché il groviglio di emozioni che la sua lettura suscita potesse raggiungere le pieghe più nascoste e profonde del mio animo e potesse sedimentare. E l’ho letto, per puro caso, proprio nella stessa terra che Lisetta descrive e che anche a me fa vivere le stesse sue emozioni. Terra che ambedue amiamo profondamente.

Quando si parla di un libro ognuno ne dà una sua lettura che corrisponde al suo stato d’animo, al suo modo di leggere tra le righe quello che lo scrittore ha voluto comunicare. Quello che stasera voglio condividere con voi è il mio modo di entrare in sintonia con quanto l’autrice ha scritto.

“La grotta delle rondinelle” potrebbe sembrare un libro di difficile lettura, poiché dà la sensazione di non avere una trama ben definita. Ma se lo si comincia a leggere, ci si rende conto, o almeno così per me è stato, che ci troviamo di fronte ad un’opera complessa e del tutto originale per come è strutturata.  E allora si va fino in fondo.                 

Secondo il mio modesto parere, questa è l’opera di una persona “che non vuole dimenticare”; che ha quasi paura che la sua terra, le sue emozioni, il suo amore per le persone con le quali ha diviso un tratto di strada della sua vita possano svanire nel nulla, e invece lei queste sensazioni, queste memorie, vuole fissarle sulle pagine, fin quasi a scolpirle nel cuore e nella memoria di chi legge.

E apre questa lunga serie di emozioni con una struggente dedica ad una piccola donna, a lei molto cara. Una dedica dolcissima a Serena, una bimba che “ha trovato la sua casa”; “ha raccolto i suoi ricordi”; “ha lasciato il suo nido”…

Le protagoniste di questo libro sono le donne: dieci racconti; dieci segmenti di vite di donne ferite in qualche modo, che convergono in una storia unica, come legati da un sottile, immaginario filo rosso. Versi; citazioni; fotografie; strofe di canzoni; massime; filastrocche; disegni dell’autrice concorrono tutti insieme a raccontare l’umanità che nel libro compare: un’umanità semplice, povera di cose, ma ricca di cuore, di valori, di sentimenti. Il tutto all’interno di una natura selvaggia, forte, sanguigna direi, com’è quella del Pollino, dei luoghi dove Lisetta ha trascorso la sua infanzia, dove hanno ancora dimora i suoi sentimenti più reconditi… luoghi ancora popolati dalle rondinelle che nel libro, mi sembra, di volta in volta siano la mamma, e poi Irma, zia Sara, Alma, Fiorella, Maria, e ancora Agnese, Bettina, Gisella… e la nonna.

Nei racconti si rincorrono frasi smorzate, quasi senza segni di punteggiatura, e ne accrescono il pathos. Descrizioni minuziose e particolareggiate, fatte con pennellate veloci e nello stesso tempo attente, pennellate che non sfiorano la superficie del quadro da dipingere, ma che invece sono capaci di scavare profondi solchi che nessun vento potrà mai cancellare, nessuna tempesta potrà mai livellare. Scavano nell’anima. Scavano in maniera furiosa, rabbiosa, quasi crudele. Arrivano fino in fondo. Per questo vi ho anticipato che non è facile parlare di questo libro. Non è facile parlare di emozioni che sembrano buttate giù alla rinfusa ma che improvvisamente, come per miracolo, prendono forma in una poesia, in un racconto, dove ognuno può ritrovare  stati d’animo provati in qualche momento lontano della vita.

E’ un libro ricco di immagini estremamente delicate. Ne cito solo una: La notte intanto uncinava la luna – dice descrivendo il momento in cui non è più sera ma non è ancora notte – e l’aiutava a salire i gradini del cielo.

Tanti sono i personaggi che popolano queste pagine, a volte familiari, a volte, penso, di fantasia: zio Giovanni; il nonno; Antonio; e Franco, l’orologiaio: Uomo dalla vita estremamente regolata. Un uomo così sistemato e virtuoso, innamorato di Agnese che non è esattamente un lilium candidum o un candido ermellino. Ma a lui basta vederla perché gli si fermi il cuore.

E zia Tina, che si reggeva in piedi per scommessa…come su un treno senza freni o con i freni manomessi. Un vero merluzzo secco, uno stoccafisso sfruttato e striminzito dagli ossi e ossicini tutti ricurvi a raggiera…ossicini davvero impressionanti. Un’irreale ipotetica femmina ammaccata da tutti i lati. Calava ogni giorno di più come il sale nell’asciugarsi.

Mi piace leggervi alcune brevi descrizioni proprio per comunicarvi il modo delicato e nello stesso tempo immediato, vivo e palpitante col quale l’autrice ci restituisce il fascino di un mondo che sembra ormai svanito nel nulla.

Zia Tina “Si era innamorata di suo marito che pettinava i capelli con un ciuffo tirabaci che sembrava fatto con un arricciaburro. Il marito, maestro d’ascia, faceva il tagliapietre e anche il tagliaboschi, a seconda dei tempi faceva anche il ferraiolo. Scalpellava la pietra di fiume e incideva il legno di ciliegio e di noce. Un giorno egli fu cortesemente chiamato per un lavoro fuori zona e non sentì più la necessità di ritornare da zia Tina. Le spedì soldi per un po’. Poi più niente. E lei, sola e spiantata, abbracciò la croce senza marito al suo fianco. Deve averlo amato moltissimo. Così mi risulta. Nel paese si viveva facendosi dei favori, dei piccoli piaceri. Ognuno apparteneva all’altro, come le gocce d’olio che s’aggregano nell’acqua, e la zia prendeva il buono dove lo trovava. La zia aveva il senso dell’appartenenza e ne rispettava il valore.”

Quel senso dell’appartenenza che oggi, purtroppo, sembra scomparso. Appartenenza nel significato più nobile del termine: nel senso di partecipazione ai bisogni dell’altro.

Questo libro mi riporta alla mente immagini tratte dal film “L’albero degli zoccoli” di Marco Bellocchio, o da Zebio Còtal, romanzo di Guido Cavani, o alcuni versi di Antonio Machado, quando in Soledades canta, oltre alle atrocità della miseria e alla sofferenza degli individui, anche le solitudini non solo dell'uomo ma anche dello spazio, abitato dal soggetto che dialoga in modo autobiografico con i fantasmi del suo passato. Anche Lisetta dialoga con il suo passato; dialoga con la vecchia casa; col vento; con la notte; con la luna… Dialoga, con infinita dolcezza con la nonna che sta per andarsene per sempre, e ha “il viso sempre più lucido, come se vi avessero spalmato con un pennellino un velo di chiara d’uovo”.

Dice alla nonna: “Ti porterò fichi freschi e trecce di fichi seccati a crocette con dentro le noci delle nostre piante di noci che vivono assieme ai melograni e a ginepri e a ciliegi e a sorbe e a mirtilli. Ti porterò anche un thermos di caldissimo latte di capra appena munto per la febbricola reumatica e per la pleurite, una pomata per la malattia del petto e per la lombaggine, uno sciroppo di fichi e un decotto d’orzo per rimediare ai convulsivi accessi della tosse e una borsa per l’acqua calda. Ciao, nonna, aspettami e starai benone! Giocheremo a scaldamani. Prima le tue sopra le mie e le mie sotto…poi le mie sopra e le tue sotto. E andremo al mare che non abbiamo mai conosciuto non per fare il bagno ma per fare le insabbiature. Tu non avrai più le dita gelate, e io avrò la tua compagnia”

E’ un appuntamento che Lisetta dà alla nonna…

Il tema della morte ha una sua insistente presenza nel libro; una morte però vista non come disperazione, ma come luogo di pace, di rassegnazione, e anche di speranza, dove la sua nonna, che lei immagina in Paradiso col nonno, quando Lisa la raggiungerà si metterà “in ghingheri. Non più slavata e scipita, ma raddolcita e vestita di voile”. Indosserà “Uno chemisier turchese pallido con un bel taglio di spalle sulla pelle nuda; un turchese color del fiume di montagna e scarpine con suolette leggere e vellutate come petali di rose”.

Mi sembra  che le descrizioni, la natura, i personaggi di questo libro abbiano il respiro dell’Epica antica e la tensione tragica dell’antico Teatro. Un’epopea della miseria contadina.

E come nell’epica il paesaggio gode di un’assoluta rilevanza, anche in questo libro le montagne, la luna, il paese, accompagnano le vicende dei vari personaggi e a volte incombono senza tregua su tutti loro, assillandoli: dall’afa soffocante dell’estate piena al gelido nevischio dell’inverno. Spesso ne condizionano il destino.

Nelle sue pagine ritroviamo immagini che, come chiavi simboliche, rappresentano lo stato d'animo dell’autrice. Lisa, l’acciughina con le scarpe “stimpagnate”, con i capelli dritti come spaghetti, che ha la testa piena di versi di poeti antichi, deve raggiungere la nonna per raccontarle del suo amore per la poesia. (Molto forte è il legame di Lisa con la nonna come altrettanto forte è quello col papà, e lo vedremo fra poco).

E la nonna, piccola donna di un piccolo paese, le dice di raddoppiare gli sforzi, tendere l’arco e andare, anche se di poesia non si vive.

Lisa non è come quelli che non permettono alla speranza d’allignare, ma si affidano alla rassegnazione. Lisa è testarda e sa quello che vuole, mentre la maggior parte dei personaggi che popolano le pagine di questo libro sono persone pie, povere, umili, acconsenzienti e connaturate al ritmo lento e perpetuo della campagna; ai luoghi calmi, cadenzati dai silenzi, restii di musiche e pieni invece di quei lievi suoni quali lo scorrere pacato dei torrenti, il suono delle campane, il rimuoversi del fieno, i versi degli animali.

Lisa racconta, e il suo è un raccontare quasi dopo avere ascoltato, un narrare la storia come udita dai nonni che la raccontano ai propri nipotini. Un ripercorrerla amorevolmente attraverso le radici, la cui fatica, che sale lungo il tronco della vita, nutre di linfa e dona poetici fiori e frutti sapidi ai rami.

Ma tanti sono i temi che attraverso le riflessioni acute e taglienti dell’autrice si sviluppano, o affiorano in questo libro che parla di valori e ci presenta una visione molto critica della società. Con la schiettezza che la contraddistingue, l’autrice si sofferma, con toni talvolta molto amari, sulla protervia dei potenti, sull’annullamento dei deboli, sulle ingiustizie, sulle menzogne che avvelenano la nostra società; accenna agli orrori della guerra, all’amore per la libertà che per i poveri cristi diventa quasi un lusso: “Anche l’amore per la libertà, in un territorio dove non sono state combattute e vissute direttamente le guerre ma solo le loro conseguenze, è una cosa eccezionale…” dice a pag. 30. E allora si cerca, come ha fatto Lisa, di andare lontano, alla ricerca di una nuova dimensione, alla scoperta di un nuovo mondo… 

Andare lontano…” Per tanti di noi “andare lontano” è stato sinonimo di emigrazione, quell’emigrazione che ha annullato l’anima di interi paesi.

L’emigrazione - scrive l’autrice - ha isolato, sfibrato, sgretolato nel nulla e fatto morire di lento crepacuore interi affascinanti paesini simili al mio, ha mortificato il mistero di paesaggi che non esistono più neanche sulle cartoline, neanche più sulle carte geografiche, ha messo sul rogo e mandato in fumo sapienza e sapienti, fatto sconfinare e legare agli interessi del Nord talenti e riproposto clandestinamente le nostre intelligenze laddove c’è già tutto, laddove tutti hanno tutti la loro parte.”

E anche la descrizione del piccolo paese fatta dal nonno nel primo racconto, nel momento in cui gli viene chiesto dove seppellirà la sua compagna di vita che sta per andarsene per sempre, tocca fino in fondo le corde dell’animo di chi legge: la seppellirò, dice, “ in questo piccolo comune dove vivo da bambino. In questo disabitato sperduto dissestato paese lindo e pinto illuminato dal sole da tutti i lati…”  Ecco, il paese è disabitato, sperduto, dissestato, ma è lindo, ed è baciato dal sole che ne attenua anche la povertà. Una povertà profonda, all’interno della quale persino un uovo può costituire una ricchezza:  “dal gallinaio il nonno porta l’uovo per comprarsi le sigaretteUn uovo…una piccola risicata rendita…una miniera d’oro!”  

Io credo che questa fatica letteraria di Lisetta sia nata da un atto d’amore: un atto d’amore  profondo verso la propria terra, la propria gente, le proprie radici. Un atto d’amore verso le donne, verso il suo essere donna, e madre, e compagna di vita di un uomo col quale ha condiviso ogni momento, ogni impegno, ogni decisione, il percorso di una vita.

Così descrive teneramente il giorno del suo matrimonio: “Mi sposai in una chiesetta in riva al lago. Il lago era appena increspato dalle onde di fine ottobre, quando si tengono le cose al caldo ed il vino è vin brulè. Mi mancavano la truccatrice e le damigelle, il brillante al dito e l’orchestrina in chiesa, gli omaggi floreali e le fotografie a colori. Mi mancavano il velo con il cappello di tulle e i guanti bianchi. Mi mancavano le scarpe bianche chiuse col tacco basso. Lo strascico del mio velo non era né di tanti né di pochi metri…non era né lungo né corto…né arricciato né liscio.” E il viaggio di nozze Lisetta e Antonio non lo fanno alle Maldive, e neanche in giro per l’Europa, e neanche in giro per l’Italia: lo fanno “al paesino, dai parenti stretti e dalla suocera” un viaggio che ci riporta vagamente alla mente il viaggio di nozze, povero ma nello stesso tempo dolce e struggente, di Stefano e Maddalena, proprio nell’opera di Ermanno Olmi.  Lisetta, quindi, si è sposata da emigrante, ma non vuole restare in una terra che non sente sua. Vuole tornare dove scorre il suo Lete; vuole che l’albero muoia dov’era stato piantato. E l’albero torna dov’era stato piantato, torna da chi l’ha piantato, torna a casa. Il libro si conclude con toni accorati, così come si era aperto. Il cerchio degli affetti si chiude nel ricordo del padre, la cui immagine in bianco e nero è racchiusa “In un cuore a punto interrogativo”Occhio alla penna, papà! Ti portano via. E’ giunta l’ora di dirti addio! Mentre le lacrime di San Lorenzo in pioggia ricadenti scendono dal rosaio del cielo, come scintille splendenti…

Siamo arrivati così alla conclusione, ma con quanto vi ho detto non vi ho assolutamente raccontato il libro. Ne sono state aperte solo alcune pagine. Ci sarebbe tanto altro da dire…e spero che lo scoprirete da soli, leggendolo. E leggendolo scoprirete che in questo libro c’è la storia, passata e presente, della nostra gente, in particolare di quella che vive in quei paesi che noi definiamo “abbandonati da Dio e dagli uomini”. In questo libro c’è tutta Lisetta, la cui storia “principia a quota 850 metri d’altezza sul livello del mare. E sessagenaria tra una risata e l’altra soggiorna in altra zona. Un gatto nero attraversò la mia strada. Mi ha portato cattiva fortuna mi ha tolto la terra mi ha rubato la casa…Così lei sostiene, ma, io direi, cara Lisetta, che la vita ti ha regalato grandi e certamente meritate soddisfazioni, e tanti affetti, anche in “quest’altra zona”, dove vivi; ne sono testimonianza i tantissimi amici che sono qui, stasera, a festeggiarti perché ti apprezzano e ti vogliono bene.

Rosanna De Luca

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